«Ah», dice Roland, sfregando un fiammifero, Jeanne sente distintamente il rumore, ed è come se vedesse il volto di Roland mentre aspira il fumo, gettandosi un po’ indietro con gli occhi socchiusi. E come se un fiume di squame scintillanti balzasse dalle mani del gigante nero e Marco ha appena il tempo per scansare il corpo dalla rete. Altre volte – il proconsole lo sa, e volta la testa perché solo Irene lo veda sorridere – ha sfruttato quel minimo istante, che è il punto debole di ogni reziario, per bloccare con lo scudo la minaccia del lungo tridente e gettarsi in un affondo, con un movimento folgorante, verso il petto scoperto. Ma Marco si mantiene a distanza, le gambe piegate come sul punto di saltare, mentre il nubiano raccoglie velocemente la rete e prepara un nuovo attacco. «È perduto», pensa Irene senza guardare il proconsole che sceglie alcuni dolci dal vassoio che gli porge Urania. «Non è più quello di un tempo», pensa Lica rimpiangendo la sua scommessa. Marco si è curvato un po’, seguendo il movimento circolare del nubiano; è l’unico che ancora non sa ciò che tutti presentono, è appena qualcosa che rannicchiato aspetta un’altra occasione, con il vago sconcerto di non aver fatto ciò che la sua tecnica gli ordinava. Avrebbe bisogno di più tempo, delle ore della taverna che seguono ai trionfi, per intendere forse la ragione per cui il proconsole non debba pagarlo con monete d’oro. Rabbuiato, aspetta un altro momento propizio; forse alla fine, con un piede sul cadavere del reziario, potrà incontrare un’altra volta il sorriso della moglie del proconsole; ma questo non lo sta pensando lui, e chi lo pensa non crede più che il piede di Marco possa puntarsi sul petto del nubiano sgozzato.
Julio Cortázar, Tutti i fuochi il fuoco, i Tutti i fuochi il fuoco
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