La cosa migliore di questa cronaca è il titolo, che del resto, come tutti sanno, non è mio. Appartiene a Fernando Pessoa. Nel caso vi fosse ancora qualcuno che non sa chi è Fernando Pessoa, dirò che quest’uomo fu un poeta che ne sapeva molto di queste faccende di dei e degli affari che loro fanno. Ne sapeva tanto che dovette inventare, dentro di sé, altri personaggi che lo aiutassero a sopportare il peso e il giogo del sapere. E neppure così potè vivere in pace.
Molto di quel che si scrive non sono altro che glosse del già detto. Sicché anche questa cronaca è una glossa, scritta in tono minore, di un verso che non ne ha bisogno. Ma le circostanze possono più della volontà e stavolta non ho volontà sufficiente per resistere all’ossessione di questo verso: «Vendono gli dei quello che danno». E affinché la cronaca non sia del tutto gratuita, mi figuro un lettore ingenuo, di quelli che non vanno oltre il senso letterale del testo e che, dunque, non riescono a capire come e perché si vende una cosa data. Del resto, se mettiamo da parte queste alte cortesie poetiche, perfino in una raccolta di proverbi da quattro soldi troviamo l’equivalente. Dice il popolo (o diceva) che «quando l’elemosina è generosa, il povero diffida».
Solo che qui il popolo e il poeta discordano. Perché il poeta, alla fine, non diffida. Riceve dalle mani degli dei quel che gli dei gli danno e se ne va per il mondo, come un trionfatore, mostrando a tutti i benevoli doni di cui l’anno colmato. Finché arriva il giorno che ne esigono il pagamento. E siccome in quest’affare non si impegnano soldi, né gli dei accettano pagamenti in denaro, il poeta paga con l’anima, l’unica ricchezza che ha e l’unica che gli dei accettano come moneta adeguata. Proprio per questo hanno messo in piedi l’affare. Allora il poeta (non deve esserlo necessariamente: basta che si tratti di un uomo che gli dei hanno scelto, la cosa riguarda loro) lascia cadere le braccia, scopre l’inganno e mormora: «Vendono gli dei quello che danno».
Che cosa vendono gli dei, dando? Tutto quanto esalta l’uomo, tutto quanto lo innalza. Vendono l’intelligenza acuta, vendono la sensibilità esacerbata, vendono la lucidità implacabile, vendono l’amore appassionato. E tutto ciò, che è di fatto cammino di perfezione (di gloria, nel senso più alto del termine), diventa d’improvviso l’inferno in terra. Gli dei circondano di mura la vittima prescelta e la lasciano sola in quell’arena sacrificale. È la solitudine, è il più grande spettacolo del mondo. Siedono gli dei sulle gradinate e se la spassano. Non entrano leoni nel circo – magari entrassero. Non ci sono combattimenti di gladiatori – magari ce ne fossero. Gli dei sono intenditori e sanno che tali banalità nulla aggiungerebbero al piatto forte del menù: la lotta dell’uomo per conservare la propria anima. Come finisce lo spettacolo? Sempre allo stesso modo. L’anima è passata di mano in mano, girata e rigirata, gli dei si sono indicati l’un l’altro le ferite sanguinanti, le vecchie cicatrici. Intanto, al centro dell’arena, l’uomo è un gomitolo informe. Di nuovo sazi, gli dei, con un gesto sdegnoso gli restituiscono l’anima ed escono dal circo. Alla ricerca di un’altra vittima. Laboriosamente, con difficoltà, l’uomo reintegra in sé quel cencio che gli è stato reso. È ciò che ha di più prezioso. Ora che è nudo sa di non avere altra ricchezza. Abbatte, come può, il muro con cui l’hanno circondato ed esce in campo aperto. Gli dei si allontanano, conversando e ridendo. In fondo, non hanno colpa: sono fatti così.
L’uomo si raddrizza e cerca di respirare. Fa i primi passi. E come chi si lamenta con se stesso va dicendo: «Vendono gli dei quello che danno». Auguriamoci che non lo dimentichi. Ma sarà uomo se non lo dimenticherà?
José Saramago, Di questo mondo e degli altri
Sono già alcuni mesi. Quello che all’inizio era un semplice vezzo tecnologico-esibizionistico, a dire il vero parecchio insolito per me, è diventato una piacevole abitudine. Finito un libro riportavo su questo blog il passaggio che più sentivo vicino alla mia sensibilità, alla mia esperienza della vita. Quello che in definitiva era entrato a far parte del mio immaginario di lettore e di persona che delle letture cerca di fare buon uso, per vivere meglio. Ed ecco la prima eccezione: oggi riporto un intero racconto, una cronaca, come la definisce l’autore. Chi mi conosce sa che la mia mancanza di sintesi è proverbiale. Chi non mi conosce abbastanza lo apprenderà ora. Fatto sta che non ho saputo (o non ho voluto?) scegliere un passaggio che potesse riassumere il senso di tutto il racconto. Le ragioni di questa scelta mi sono completamente ignote (…che poi è un modo elegante di dire che invece sì, le so benissimo, ma probabilmente non è questa la sede opportuna per dire quali siano, né ce n’è una che non sia la mia testa). Sfido chiunque desideri cimentarsi nell’impresa: legga pure la cronaca, e provi poi a tagliarla. Vedrà che ne risulterebbe snaturata. È perfetta così, nelle sue due pagine scarse: abbastanza lunga da non risultare stucchevole, abbastanza breve da condensare una verità enorme in due minuti di lettura che sarà difficile dimenticare.
La riflessione meticolosa che accompagna le mie letture non lascia spazio a frettolosi innamoramenti. Ogni parola è stata pensata, pensata e poi ripensata prima di essere riportata su questo blog. Di più: ancor prima di essere letta è stata in qualche modo vissuta; non nelle stesse modalità descritte dall’autore, certo, ma con la medesima tensione emotiva, forse con lo stesso disagio: lui solo davanti la pagina bianca, io solo davanti a quella scritta, accomunati dallo stesso sforzo di immaginare una realtà che non sia quella volgare in cui arranchiamo quotidianamente. Ecco allora che questa forma di appropriazione indebita delle altrui fatiche intellettuali poteva verificarsi solo a libro ormai chiuso da qualche giorno, quando le suggestioni del momento, l’empatia con la scrittura, a volte le lacrime (quelle che salgono dal petto, non dagli occhi), avevano lasciato il posto ad un salutare distacco intellettuale, quello che poi tanto si addice a chi voglia consacrare la vita all’antropologia (lo sguardo antropologico è uno sguardo da lontano, diceva Lèvi Strauss… non so se sia vero, per ora la prendo per buona, ma con riserva). Ecco dunque la seconda eccezione: in questo caso il libro non è ancora finito, anzi, questa cronaca si trova proprio nella sua parte iniziale. Tutto lascia presagire che nel continuo della lettura ce ne siano tante altrettanto significative, forse anche di più. Tuttavia mi sembra che non ci sia una sola ragione in grado di dissuadermi dal derogare alla regola dello sguardo da lontano. Mi prendo questa libertà, e rivendico la possibilità di lasciarmi indicare una strada alternativa, una deviazione inaspettata, quand’anche questa mi sia suggerita dalla pagina di un libro piuttosto che dal saggio consiglio di chi mi vuole bene (e poi chi lo dice che un libro non possa essere un saggio consigliere?). Questa trascrizione traccia dunque la scia di un sobbalzo dell’anima (la mia), è un applauso a scena aperta (il mio, modestissimo), un urlo di liberazione che non vuole aspettare per farsi sentire. E un modo personalissimo e mediocre, infine, di ringraziare chi non potrà mai leggere queste parole, ma che con le sue ha illuminato la mia vita.
ps: domani di corsa in libreria: mi aspetta Fernando Pessoa. Non voglio farlo aspettare. Non voglio aspettare.

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