«Isole di cenere e corallo», scrisse Aubert de La Rüe a proposito del «continente Pacifico». Come se in questo luogo il principio e la fine si toccassero. Per chi viene dalla piattaforma continentale - queste enormi masse di granito e calcare su cui per milioni di anni si sono depositate le alluvioni dei fiumi -, le isole vulcaniche hanno qualcosa di nuovo, di precario, di immaginifico. Qualcosa che non può non aver segnato i popoli che vi si sono evoluti.
Un pulviscolo sospeso nell’aria, un persistente odore di bruciato, o il silenzio che segue una forte esplosione. Il suolo che trema di continuo, una pelle fluida. Il mare pronto a inghiottire ogni cosa. Unici veri abitanti, gli uccelli marini, e negli abissi pesci strani, mostruosi, lamprede, pesci pietra, pesci scorpione; talvolta un pesce luna che guizza fuori dall’acqua per andare a morire sulla spiaggia, senza motivo, come in preda alla follia.
Nel XV secolo della nostra era, ai tempi di re Mata, ci fu un violento terremoto e le acque dell’oceano inghiottirono completamente l’Isola di Kuwae. Narra la leggenda che il cataclisma fu causato da un incesto (come il Diluvio). Quando si è consapevoli che a un Paese, alla propria terra natale, manca un pezzo, non si può che averne una percezione strana. È come il sogno di un mutilato. C’è qualcosa di impossibile, di incompiuto. La piroga scivola sull’oceano tra Efaté ed Epi, passando sopra un mondo sommerso.
Il resto allora non può che essere insignificante, condannato all’irrealtà.
Quando si nasce sull’orlo di un simile abisso bisogna imparare a resistere.
E questa resistenza che colpisce il viaggiatore straniero, che venga dall’America o dall’Europa.
Statue dritte sulla riva, in attesa.
Statue, uomini, donne?
Dèi.
Scolpiti nella radice nera della felce arborescente, in piedi sulla riva o riuniti a semicerchio in una radura, non lontano dai villaggi.
Loas, spiriti.
L’effigie dei defunti, sepolti nelle grotte sul lato orientale dell’isola o in fondo al mare, che un giorno potrebbero tornare, forse, chissà?
Esseri soprannaturali, a metà tra l’uomo e l’animale, alti più di due metri, con occhi come nautili, profilo spigoloso, naso diritto e narici dilatate, con le spire dei denti di maiale che sporgono dalle commessure delle labbra. Volti incisi nelle venature del legno, cinti da un nastro che ne mette in risalto i tratti. Sul capo, una cresta di rettile.
Una lunga ferita squarcia i corpi da cima a fondo mostrando l’interno rosso del tronco e liberando la loro voce.
Slit gongs.
Colpi duri e sordi che per secoli hanno risuonato da un’isola all’altra, accompagnati dal debole rumore dei piedi nudi sulla terra.
Voci che provengono dalla foresta, dalle profondità della terra. Tamburi sotterranei, voci dei defunti, degli antenati, che collegavano le isole.
Ambae, Ambrym, Epi, Efaté, Raga, Tanna, Tongoa, Anatom.
Voci che ricucivano lo strappo del tempo collegando queste isole a terre lontane, all’Australia, a Sulawesi, alle Isole Molucche, alla Malesia, al Madagascar, alle Andamane, a Taiwan, ad Amami Oshima.
Colpi misteriosi che tessevano la tela del cielo notturno, che dividevano le acque e tracciavano rotte sul fondo rugginoso dell’oceano.
Per secoli questi esseri hanno danzato, chiamato.
Ora tacciono.
In esilio nei musei, al Quai Branly a Parigi, al British Museum di Londra, al Museo Leopoldo II di Bruxelles, a Roma, Madrid, Berlino, Washington e in ogni angolo del mondo.
Non parleranno più.
Il loro legno nero, con l’anima color del fuoco, si consuma lentamente in qualche polveroso giardino di Port Vila, accanto a una piroga d’alto mare e alle maschere di fibra.
Giganti di Ambrym e Raga, simili ai giganti di Rapa Nui, come se ormai da Pentecoste all’Isola di Pasqua rimanesse soltanto un unico canto malinconico.
In piedi, ancora, fino allo sgretolamento, sino alla fine. Il nome degli avi urlato nella tempesta, come ai tempi in cui uomini e donne approdarono su queste rive nere per cominciare una nuova vita.
J.M.G. Le Clézio, Il continente invisibile
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