
Quando prendo in mano la mia macchina fotografica provo un brivido, una fantastica sensazione di onnipotenza. Mi sembra di impugnare un leggendario strumento di dominio, una bacchetta magica sui generis, dotata di esposimetro ed otturatore; magica perché in grado di fermare il tempo. Ma il delirio di onnipotenza ha vita breve. Il tempo non si ferma, neanche quando l’otturatore si serra e stampa una bolla di luce sul negativo. Il tempo mantiene nonostante tutto la sua natura magmatica: il più delle volte fila diritto per la sua strada, si lascia dietro storie e momenti sparsi, senza una logica che li governi; più raramente torna dal passato a riesumare piccole gioie e grandi dolori. Il senso comune nota anche delle bizzarre evoluzioni tachimetriche: per questo a volte abbiamo la sensazione che il tempo acceleri, altre che deceleri. Tuttavia, quel che è certo e che mai e poi mai ha deciso di fermarsi. Il caso non è dato. L’eventualità non è prevista. Il mio brivido appare dunque di una tristezza sconvolgente, disarmante… Eppure la macchina fotografica continua ad avere un fascino indiscusso: per me, per chi, come me, ama fare qualche foto ogni tanto, senza grandi pretese, per chi ha fatto di questo marchingegno tecnologico una professione; a volte invadente e dissacrante, a volte informativa, altre celebrativa. Buona parte di questo fascino può ascriversi al fatto che la fotografia è probabilmente l’arte meno elitaria e più democratica che ci sia: anche chi non sappia maneggiare pennelli e tinte, o chi non conosca le segrete vie del pentagramma, con un po’ di fantasia e una conoscenza basilare dei principi della fotografia può produrre ottimi scatti. Inutile ricordare come il digitale stia contribuendo a questo processo di democratizzazione: tutti possono permettersi una fotocamera digitale, è addirittura impensabile non averne una integrata nel cellulare. Penso che la fotografia analogica, quella che ricorre ancora al buon vecchio rullino sia, ancora oggi, nonostante lo strapotere del digitale, la più stimolante, la più creativa, la più “romantica”, nel senso che è ancora potentemente legata alla personalità del fotografo e al suo estro creativo. Non che il digitale non permetta questo rapporto, ma lo rende più difficoltoso; i confini tra l’abilità del fotografo nell’uso della fotocamera e nell’uso del computer sono labili e frastagliati: non è possibile sapere dove finisce la scelta stilistica di chi scatta e dove inizia la potenza di calcolo di “chi”modifica. E questo mi turba non poco: lo scatto diventa una costruzione metamorfica, frutto di una serie virtualmente infinita di interventi mediati dalla fredda precisione del computer. Certo, si può perseguire la perfezione formale: saturazione ottimale, bilanciamento dei colori, non un campo sfumato, mai un’inquadratura sbilenca, troppo stretta o troppo larga: ma intervenire così pesantemente sulla fotografia significa negargli la sua temporalità, il legame con la situazione che l’ha prodotta. Significa renderla eterna nella sua perfezione, cosa in fondo impossibile, stando a quanto detto sopra. La fotografia è sempre legata al momento che l’ha prodotta, al contesto che le dà un senso nel passato e possibilmente anche nel presente. Tuttavia è assolutamente evidente che uno scatto significativo (per il sentimento che esprime, per la sua valenza estetica, per il suo valore documentario) al pari di qualsiasi cosa che possa definirsi “classica”, mantiene la sua capacità di comunicare a genti diverse in tempi diversi, in ragione della piccola quantità di universale che ha rubato al reale per imprimerla sul negativo. C’è però un problema che mi tormenta, che condiziona ogni mio scatto: chi sono io per ficcare il mio nasone fatto di lenti e di ghiere negli affari degli altri? Come agire affinché un pizzico di sana curiosità non degeneri in sfacciataggine e invadenza? Fino a che punto posso spingermi prima di sentire sulla mia stessa pelle la spiacevole sensazione di essere inopportuno, di turbare la legittima aspirazione altrui ad essere lasciati in pace? Paranoie, si dirà. E invece no, è un problema serio. Fare clic significa portarsi via qualcosa che in fondo non ci appartiene. In un certo senso è come rubare. Il problema non si pone evidentemente quando il soggetto è un bel paesaggio, un monumento (che sembra essere stato messo lì proprio per essere fotografato dai turisti), o qualcuno che, in un impeto di esibizionismo, si offre spudoratamente alle morbose e fameliche attenzioni di gente che non ha nulla di meglio da fare che sfogliare una rivista di gossip. La situazione cambia sensibilmente quando i soggetti sono le persone che soffrono, quelle che piangono, che perdono, che vincono, che vivono. Sfogliando i giornali mi capita spesso di incrociare lo sguardo di un bambino denutrito, la miseria di una donna qualsiasi che cerca di mandare avanti la famiglia in una qualsiasi periferia di una qualsiasi città del mondo. Qualche giorno fa su "Repubblica" è stata pubblicata una fotografia relativa alla guerra in Iraq: un soldato americano, sudato e sporco di terra, piange un suo compagno morto a bordo di un elicottero che lo porta lontano dal campo di battaglia: il corpo del soldato caduto giace proprio accanto al suo compagno, avvolto alla meno peggio in un telo grigio, forse verde. Facile cedere alla tentazione di politicizzare la fotografia, renderla il manifesto ideologico di un becero pacifismo che si nutre della stessa violenza e del dolore che tanto alacremente tenta di debellare. Verosimilmente, è altrettanto facile piegare il valore simbolico dello scatto a scopi duchiaratamente propagandistici: in questo caso qualche perdita umana non sarebbe altro che un doloroso ma necessario tributo allo scopo ultimo della democratizzazione (“esportazione” della democrazia… è una merce la democrazia?) del Medio Oriente. Come si vede, la documentazione di una realtà scottante, emotivamente coinvolgente, è sempre suscettibile di interpretazione ideologica: non mi interessa quindi sapere se quella foto si presta meglio alle ragioni delle colombe o a quelle dei falchi. Ciò che mi interessa è che in quella foto è condensata una sofferenza che è innanzitutto personale, propria del soldato che piange disperato la perdita del suo amico. Solo in un secondo momento questa sofferenza diventa universale, in ragione della naturale empatia per chi subisce una perdita, oltretutto in una situazione così drammatica come quella che si determina in guerra. Il punto è che tutto ciò avviene attraverso la mediazione dell’obiettivo, attraverso il punto di vista del fotografo. Non è cosa da poco. Scattando il fotografo ha compiuto un vero e proprio atto di coraggio. Io non sarei riuscito a trovare la freddezza per mettere il dito sul bottone e scattare. Non perché sia particolarmente emotivo, ma perché avrei sentito il dovere di rispettare il dolore di quel soldato; avrei sentito il dovere di lasciare che quel dolore restasse suo, intimo. Così facendo, tuttavia, sarei venuto meno a quella che, a vari livelli, è la vocazione prima del fotografo: documentare. Per sé, per gli altri, anche per nessuno. Senza coraggio non si può dunque essere fotografi. Forse Cartier Bresson pensava anche a questo quando ripeteva che una buona foto nasce dal perfetto allineamento di occhio, mente e cuore. Senza dubbio Robert Capa ha dimostrato con i fatti questa drammatica verità, mentre documentava la morte di un miliziano durante la Guerra Civile spagnola.

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