Dovrò rialzare la vasta vitache ancora adesso è il tuo specchio:ogni mattina dovrò ricostruirla.Da quando ti allontanastiquanti luoghi sono diventati vanie senza senso, ugualia lumi nel giorno.
Sere che furono nicchia della tua immagine
musiche in cui sempre mi attendevi,
parole di quel tempo,
io dovrò frantumarle con le mie mani.In quale profondità nasconderò la mia animaperché non veda la tua assenzache come un sole terribile, senza occaso,brilla definitiva e spietata?La tua assenza mi circondacome la corda la golail mare chi sprofonda.
Jorge Luis Borges, Fervore di Buenos Aires
Questa volta me ne tiro fuori. Francamente sono stanco di declinare la memoria al passato remoto, quello perso e idealizzato. Ho imparato ad apprezzare le virtù taumaturgiche dell'imperfetto, tempo della malinconia e della continuità, che attualizza il mio passato, lo prolunga nel presente. Su una cosa, tuttavia, non posso fare a meno di essere completamente in sintonia con Borges: la pressante urgenza di fare a pezzi.
Dalla frantumazione della memoria emana la luce più autentica del passato, quell'odore che profuma l'aria del presente e lo rende unico, perché personale, come le memorie e le emozioni. Se tutta la storia è storia contemporanea, come diceva Benedetto Croce, ogni memoria è simulacro di un passato che in me, in ognuno, è inequivocabilmente presente.
Riducevo ai minimi termini i miei ricordi perché sapevo di dover diventare quello che sono. Continuo a farlo perché so che non ho ancora finito di cambiare.
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