Dell'impossibilità di questo ritratto

29 aprile 2010
Che ritratto di se stesso dipingerebbe Fernando Pessoa se, invece che poeta, fosse stato pittore, e di ritratti? Messo davanti allo specchio, o di mezzo profilo, deviando lo sguardo a tre quarti, come chi, nascondendosi, spia se stesso, che volto sceglierebbe e per quanto tempo ? Il suo, diverso secondo le età, somigliante a ciascuna delle fotografie che di lui conosciamo, o anche quello delle immagini non fissate, successive tra la nascita e la morte, tutti i pomeriggi, le sere e le mattine, a iniziare nel Largo di São Carlos per finire nell’Ospedale di São Luís? Quello di un Álvaro de Campos, ingegnere navale laureato a Glasgow? Quello di Alberto Caeiro, senza professione né istruzione, morto di tubercolosi nel fiore degli anni? Quello di Ricardo Reis, medico espatriato di cui si sono perse le tracce, malgrado alcune notizie recenti, ovviamente apocrife? Quello di Bernardo Soares, aiuto contabile nella Baixa lisboneta? O un altro qualunque, il Guedes, il Mora, quegli innumerevoli, certi, probabili e possibili tante volte invocati? Si ritrarrebbe con il cappello in testa? Con la gamba accavallata? Con la sigaretta fra le dita? Con gli occhiali? Con l’impermeabile indosso o sulle spalle? Userebbe un travestimento, cancellando per esempio i baffi e scoprendo la pelle soggiacente, all’improvviso nuda, all’improvviso fredda? Si circonderebbe di simboli, di cifre della cabala, di segni dell’oroscopo, di gabbiani nel Tago, di moli di pietra, di corvi tradotti dall’inglese, di cavalli azzurri e jockey gialli, di tumuli premonitori? O, al contrario di queste eloquenze, resterebbe seduto davanti al cavalletto, alla tela bianca, incapace di alzare un braccio per attaccarla o difendersene, in attesa di un altro pittore che andasse lì a tentare il ritratto impossibile. Di chi? Di che?
Di una persona che si chiamava Fernando Pessoa comincia a trovare giustificazione che si dica quel che di Camoes ormai è appurato. Diecimila raffigurazioni, disegnate, dipinte, modellate o scolpite, hanno finito per rendere invisibile Luís Vaz. Quel che di lui ancora permane è ciò che ne avanza: una palpebra chiusa, una barba, una corona d’alloro. E facile vedere come anche Fernando Pessoa sia sulla strada dell’invisibilità, e, tenendo conto dell’attuale moltiplicazione delle sue immagini, provocata da appetiti sovreccitati di rappresentazione e facilitata da un dominio generalizzato delle tecniche, l’uomo degli eteronimi, ormai volontariamente confuso nelle creature che ha prodotto, entrerà nel nero assoluto in assai meno tempo dell’altro da una faccia sola, ma dalle voci anch’esse non poche. Sarà forse questo, chissà, il perfetto destino dei poeti, di perdere cioè la sostanza di un contorno, di uno sguardo usurato, di una ruga sulla pelle, e dissolversi nello spazio, nel tempo, sparendo fra le righe che sono riusciti a scrivere: se del volto senza lineamenti né contorni qualcosa viene ancora a intromettersi, è garantito il giorno in cui persino quel poco sarà definitivamente cancellato. Il poeta non sarà più che memoria fusa nelle memorie, perché un adolescente possa dirci che possiede in sé tutti i sogni del mondo, come se avere sogni e dichiararlo fosse una sua invenzione primaria. Motivi ce n’è per pensare che la lingua sia, tutta, un’opera di poesia.
Il pittore, intanto, continua a dipingere il ritratto di Fernando Pessoa. È all’inizio, non si sa ancora che volto abbia scelto, quel che si può vedere è una leggerissima pennellata di verde, magari ne verrà fuori un cane di quel colore da mettere in congiunzione con un jockey giallo e un cavallo azzurro, a meno che il verde sia solo il risultato fisico e chimico del fatto che il jockey è in groppa al cavallo, com’è sua professione e piacere. Ma il grande dubbio del pittore non riguarda i colori che dovrà impiegare, una difficoltà che hanno già risolto una volta per tutte gli impressionisti, solo gli uomini antichi, quelli precedenti, non sapevano che in ogni cosa i colori ci sono tutti: il grande dubbio del pittore è se dovrà assumere un atteggiamento riverente o un atteggiamento irriverente, se dipingerà questa vergine come San Luca dipinse l’altra, in ginocchio, o se tratterà quest’uomo come un poveretto triste che fu davvero ridicolo per tutte le cameriere d’albergo e scrisse lettere d’amore ridicole, e se anche lui, autorizzato così dall’interessato, potrà ridere dipingendolo. La pennellata verde, per il momento, è solo la gamba del jockey giallo al di qua del cavallo azzurro. Finché il maestro non darà la battuta, la musica non irromperà, languida e triste, né l’uomo del negozio comincerà a sorridere tra i ricordi d’infanzia del pittore. C’è una sorta di ambiguità innocente in questa gamba verde, capace di trasformarsi in un cane verde. Il pittore si lascia condurre dall’associazione di idee, per lui gambe e cane sono diventati meri eteronimi del verde, cose ben più incredibili di questa sono state possibili, non c’è da stupirsi. Nessuno sa cosa passa nella testa del pittore mentre dipinge.
Il ritratto è pronto, andrà ad aggiungersi alle diecimila raffigurazioni che lo hanno preceduto. E una genuflessione devota, è una risata di scherno, tant’è, ciascuno di questi colori, ciascuno di questi tratti, sovrapponendosi l’uno all’altro, avvicina il momento dell’invisibilità, quel nero totale che non rifletterà alcuna luce, neppure la luce sfolgorante del sole, che mai potrebbe fare allora al breve scintillio di uno sguardo, se non spegnersi tanto presto. Tra la riverenza e l’irriverenza, in un punto indeterminato, ci sarà, forse, l’uomo che Fernando Pessoa è stato. Forse, perché neppure questo è sicuro. Albert Camus non ci pensò due volte quando scrisse: «Se qualcuno vuole essere riconosciuto, basta che dica chi è». Nella generalità dei casi, il massimo cui arriva chi osa proporsi a una tale avventura è pronunciare il nome che gli hanno messo all’anagrafe.
Fernando Pessoa, probabilmente, neanche tanto. Ormai non gli bastava più essere al tempo stesso Caeiro e Reis, cumulativamente Campos e Soares, ora che non è poeta, ma pittore, e farà il proprio autoritratto, che volto dipingerà, con che nome firmerà il quadro, nel suo angolo sinistro, o nel destro, perché tutta la pittura è specchio, di che cosa, di chi, per che cosa? Finalmente il braccio si solleva, la mano stringe una sottile asticella di legno, da lontano diremmo che è un pennello, ma ci sono motivi per diffidare: sopra non c’è un po’ di verde, o di azzurro, o di giallo, non si vede alcun colore, alcuna tinta, questo è il nero assoluto con cui Fernando Pessoa, con le sue stesse mani, si renderà invisibile.
Ma i pittori continueranno a dipingere.

José Saramago, Quaderni di Lanzarote


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