Autobiografie erranti

16 giugno 2010
Credo che tutte le parole che pronunciamo, tutti i movimenti e i gesti che compiamo o abbozziamo, presi a uno a uno o nel loro insieme, possano essere intesi come parti slegate di un’autobiografia non intenzionale che, sebbene involontaria, o proprio per questo, non sarebbe meno sincera e verace del più minuzioso dei racconti di una vita trascritta sulla carta. Questa convinzione che tutto quel che diciamo e facciamo nel corso del tempo, pur sembrando sprovvisto di significato e importanza, è, e non può non essere, espressione biografica, mi ha portato un giorno a suggerire, con serietà maggiore di quanto possa sembrare a prima vista, che tutti gli esseri umani dovrebbero raccontare per iscritto le loro vite, e che queste migliaia di milioni di volumi quando cominciassero a non entrare più sulla Terra, verrebbero portati sulla Luna. Ciò significherebbe che la grande, l’enorme, la gigantesca, la smisurata, l’immensa biblioteca dell’umano esistere dovrebbe essere divisa dapprima in due parti, e poi, con il passare del tempo, in tre, in quattro, o anche in nove, supponendo che nei restanti otto pianeti del sistema solare vi siano condizioni ambientali così favorevoli da rispettare la fragilità della carta. Immagino che i racconti di quelle molte vite che, essendo semplici e modeste, entrerebbero in appena mezza dozzina di fogli, o forse meno, sarebbero spediti su Plutone, il più distante dei figli del Sole, meta di sicuro raramente ambita dai ricercatori.
Al momento di stabilire e definire i criteri di composizione di tali «biblioteche», sorgerebbero certamente problemi e dubbi. Sarebbe fuori discussione, per esempio, che opere come i diari di Amiel, di Kafka o di Virginia Woolf, la biografia di Samuel Johnson, l’autobiografia di Cellini, le memorie di Casanova o le confessioni di Rousseau, al pari di tante altre di analoga importanza umana e letteraria, restassero nel pianeta dove sono state scritte a testimonianza del passaggio in questo mondo di uomini e donne che, buone o cattive le ragioni per cui sono vissuti, hanno lasciato un segno, una presenza, un’influenza che, essendo perdurati fino a oggi, continueranno a marcare le generazioni future. I problemi sopraggiungerebbero allorché sulla scelta di quel che dovrebbe restare o essere inviato nello spazio esterno cominciassero a riflettersi le valutazioni soggettive, i preconcetti, i timori, i rancori antichi o recenti, i perdoni impossibili, le giustificazioni tardive, tutto quel che nella vita è paura, disperazione e angoscia, insomma, la natura umana. Credo che, in fin dei conti, la cosa migliore sia lasciare le cose come stanno. Come la maggior parte delle idee migliori, anche questa mia è impraticabile. Pazienza.

José Saramago, Il Quaderno


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